Non sono un uomo facile"
intervista con Piero Mazzarella
Grazie a Piero Mazzarella per la conversazione che
ci ha concesso, in una sera di dicembre, prima di
una replica del suo “Dammatrà”
al teatro Oscar: un incontro personale che prosegue
il dialogo di ogni sera con gli spettatori. Parlare
con il nostro maggiore attore dialettale, conoscerlo,
per quello che è possibile nel tempo di un’intervista,
dà alle sue parole sul palcoscenico un diverso
spessore: in ognuna senti non più solo un copione
recitato, pur, come si dice, da par suo, ma la sensibilità
di un uomo maturato attraverso il filtro di decine
di testi teatrali e alcuni cinematografici infinti
casi, situazioni, vicende della vita. Nelle sue parole,
che qualcuno ha definito “voce delle nebbie”,
senti l’amore e l’amarezza, senti la nostalgia
per un teatro in cui è apprezzato chi vale
e non personaggi costruiti e sostenuti da meriti conseguiti
altrove o addirittura inesistenti e per una società
più semplice, più povera, più
solidale.
Sono fatto alla mia maniera
Commendatore della Repubblica per meriti artistici
a trentatré anni, premio san Genesio, il più
prestigioso premio teatrale italiano, due Maschere
d’oro, per citare solo i più importanti,
Piero Mazzarella, simbolo del teatro dialettale contemporaneo,
racconta di avere abbandonato in cantina quintali
di trofei e di coltivare edera nelle due sole grandi
coppe rimaste in casa, perché non si vedano:
non che non facciano piacere, dice, ma non mi interessano.
In un mondo di immagini per figurare diversi da quello
che si è, Mazzarella nel teatro porta la sua
autenticità, a costo di essere scomodo fino
alla polemica, pur di non rinnegare i principi umani
e artistici ai quali ha sempre voluto ispirare il
suo lavoro e il suo stile di vita.
Ha tenuto scuole di recitazione –oggi non vale
più la pena nemmeno di insegnare, si rammarica-,
ha diretto teatri e la rete televisiva TeleMilano,
antenata di Canale 5, ma sempre operando le sue scelte
con libertà, prendendo le distanze da chi non
gli piace o non gli piace più, rifiutando le
imposizioni dei dirigenti. Amo la famiglia, la casa,
la tranquillità, i pochi amici e faccio quello
che voglio, anche in un mondo dal quale si sente lontano,
rinunciando a inseguire il successo, che peraltro
non gli manca, neppure sull’onda di uno spettacolo
riuscito, senza prendere ordini, senza compiacenze
che potrebbero giovare alla pubblicità. Ho
dalla mia la forza della ragione: sono loro che devono
tacere. Eppure, anche chi lo sa lontano dalle sue
idee lo apprezza, come quell’Ettore Albertoni,
assessore regionale leghista e membro del CdA della
RAI che, ricorda Mazzarella, è innamorato di
me, mi ha sempre cercato e sostenuto.
La musica, la pittura, la scultura, il teatro, il
cinema, anche se arte minore, per prima cosa devono
dare emozioni: quando un contadino senza cultura va
al Louvre e si ferma venti minuti davanti a un quadro,
ha scoperto la pittura anche se non ne conosce la
storia, anche se non ne sa esprimere le ragione. Negli
spettacoli di Mazzarella le emozioni non mancano,
insieme alla volontà di dialogo: vuole dire
quello che ha dentro, tanto che alle parole del copione
si sovrappongono giudizi personali, allusioni a personaggi
del presente, commenti al giornale di oggi. “Qui
è Mazzarella che parla….”, interrompe
così, per considerazioni estemporanee suggerite
dal testo, “Vecchia Europa”, in cui dà
voce ai quindici personaggi di una sceneggiatura cinematografica
non realizzata di Delio Tessa, rappresentata nello
scorso novembre al Piccolo Teatro; “adesso torniamo
al personaggio….” riprende in “Dammatrà”,
dopo qualche personalissima intrusione fra le nostalgie
del vecchio protagonista, custode di un teatro in
demolizione. Ogni sera, per ringraziare degli applausi,
quasi a concedere i tradizionali bis, qualche altra
goccia della sua visione della vita, del suo rimpianto
di valori che sente perduti.
Il popolo: un maestro
Questi valori, il parlare genuino delle gente, una
società che non c’è più
sono la motivazione profonda della sua predilezione
per il dialetto e non solo lombardo, che definisce
la forza delle nostre culture. La cultura di Mazzarella
non viene dai grandi drammaturghi che ha portato in
scena negli oltre sessant’anni della sua carriera
di attore: Shakespeare, Moliére, Hugo anche
loro traggono alimento da quel popolo che è
vero maestro, con i suoi problemi, le sue paure, gli
sfruttamenti, le ingiustizie, i sentimenti…..
E questo popolo si esprime nel dialetto, o, meglio,
nei tanti dialetti delle tante regioni italiane: non
certo strumento politico di divisione, ma ascolto
attento della voce della gente.
Mazzarella ricorda i grandi maestri della letteratura
dialettale, da Ruzante a Belli, a Goldoni: in gennaio
inizierà le prove dei ”Rusteghi”
con cui tornerà a Milano in primavera. Il copione
di un noto classico sarà più vincolante
dei testi degli ultimi spettacoli, ma la scelta è
coerente con la personalità umana e artistica
del nostro attore al quale questi rusteghi –intraducibile
espressione dialettale-, personaggi scomodi della
generazione passata, quasi sopravvissuti, assomigliano
moltissimo.
Gli ultimi cento anni di teatro italiano non hanno
espresso significative novità: non mancano
“geniacci”, come Dario Fo, Giovanni Testori,
Eduardo De Filippo, ma non hanno superato la grande
tradizione del teatro dialettale, semmai l’hanno
riportata all’attenzione del pubblico. Fra i
testi che meritano attenzione nella produzione recente,
Mazzarella segnala “I Promessi Sposi alla prova”,
una singolare rilettura in versione teatrale di Testori
del romanzo manzoniano portata sulla scena da Franco
Parenti nel teatro che ora porta il suo nome e ripresa
dalla stessa compagnia con Gianrico Tedeschi, bravo!,
nel ruolo principale del maestro. Questo originale
connubio fra due artisti lombardi potrebbe essere
un impegno per una prossima stagione?
In Dio non credo, ma non ne ho paura
Cristiano, cattolico e battezzato, da ragazzo corista
nel duomo di Milano, sono diventato agnostico nel
corso della vita. Mazzarella sui preti esprime giudizi
pesanti e gli attribuisce due errori gravissimi da
porre fra le cause del degrado del nostro tempo: da
una parte pretendono con tante parole di spiegare
il mistero; dall’altra vorrebbero un mondo senza
peccati, togliendo perfino quello originale, senza
accettare che il peccato è una realtà
non sopprimibile. I ragazzi devono conoscerlo e sapere
che la via del bene è più aspra di quella
del male: scelgano con consapevolezza e senza inganni.
Ma la fede, se si accetta, deve essere mantenuta nella
sua purezza e nella sua interezza: il Padre eterno
non ha nessun dovere di spiegare nulla. E cita Trilussa,
ricordando di essere stato forse l’unico milanese
al suo funerale: “la fede è bella senza
dir però; // senza forse e senza dir perché”.
Deluso dalla grande baracca che è la Chiesa
cattolica -ha fatto più danni di Hitler-, Mazzarella
esprime apprezzamento per alcuni pontefici, da Pio
X, un brav’uomo, a Giovanni XXIII, tutta bontà;
a Paolo VI, con il quale si compiace di aver avuto
un colloquio e di essere ritratto in una gigantografia,
meno popolare, ma di grande cultura; a Giovanni Paolo
II che gli fa molta pietà perché morirà
senza riuscire a rammendare il manto pieno di buchi
della chiesa. Ma ha tirato la barba a Fidel Castro,
che dopo due mesi ha liberato seimila prigionieri,
e ha ridimensionato Clinton”.
Mazzarella crede comunque di essere tra i pochi, anche
fra i suoi colleghi, che non hanno mai bestemmiato
e che fingono poi improbabili pentimenti: con sincerità
ogni sera si interroga sulla vita: “che cosa
ho fatto oggi?” e siccome posso addormentarmi
tranquillo, questa è una preghiera migliore
delle orazioni biascicate senza caprine il senso e
senza discuterle. Così non ho nessuna paura
del Padre eterno, anche se non ci credo.
Porta Romana
L’ultima domanda è sulla nostra zona,
alla quale Piero Mazzarella è particolarmente
affezionato: ci ha vissuto da ragazzo, ha recitato
sulle scale di casa chiedendo cinq ghei per il gelato
ai vicini…. Sostenitore e difensore della milanesità,
Mazzarella fatica ormai a trovare una portaromanità:
non c’è più. Sono solo ricordi
di quelli della mia età: quando ci ritroviamo
ne riparliamo, ma dopo di noi non c’è
più nessuno. Rimpianto dunque per quella perduta
solidarietà dei diseredati: il marito della
portinaia faceva el manetta, il tranviere, con turno
di notte e dormiva al pomeriggio. Bastava che la portinaia
lo dicesse, perché tutti noi ragazzi smettessimo
di giocare con l’inevitabile baccano.
Un rispetto davvero da rimpiangere, una nostalgia
a cui invitano tanti spettacoli di Mazzarella, la
sua voce che viene da lontano, che evoca nebbia e
navigli; il suo passo lento che rimanda a tempi con
meno fretta e più tolleranza. Si dice contento
di essere invecchiato bene: ma davvero non c’è
ricambio a quella generazione? Davvero non vale più
la pena di insegnare?
On omm che el dis quel pocch che el sa; on omm che
el dà quel pocch che el gh’ha; on omm
che fa quel pocch che el pò; l’è
on omm da rispettà: conclude citando suo nonno.
E grazie, comunque. Ugo Basso